Dalla comunicazione verde al greenwashing in Italia

Dalla comunicazione verde al greenwashing in Italia

Nel 1972 il pubblico italiano ebbe un primo incontro ravvicinato con una comunicazione verde, che si poneva l’obiettivo di tutelare l’ambiente con la prima pubblicità progresso in difesa dell’ambiente. Fu curata dall’Associazione Pubblicità Progresso (oggi Fondazione) fondata nel 1971 con lo scopo di promuovere una comunicazione sociale di qualità. La campagna “a difesa del verde”, che comprendeva spot video e manifesti, si poneva l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle conseguenze delle azioni compiute a danno della natura e di creare maggiore responsabilità verso il problema. Il simbolo utilizzato era l’uomo-albero, raffigurato in una posizione di difesa. Numerosi enti offrirono il loro appoggio alla campagna: dal Ministero dell’Agricoltura e Foreste al Club Alpino Italiano, da enti regionali e provinciali per il turismo a scuole e gruppi privati di naturalisti ed ecologisti.

La successiva campagna pubblicitaria caratterizzata da un a comunicazione verde e un’impronta ecologista la ritroviamo nel 1975; fu promossa da Barilla che, in seguito alla grave crisi economica mondiale e all’esigenza di trovare alternative opportunità di crescita, cercò nuovi mercati e nuove tipologie di clienti creando il marchio Mulino Bianco. Dopo mesi di ricerche e sperimentazioni, vennero messi a punto i primi cinque modelli di biscotti, i Galletti, i Tarallucci, i Molinetti, Le Campagnole e Le Pale, i cui nomi, «attinti ad un vocabolario antico, evocano tempi passati e atmosfere contadine […]. La bontà e la naturalezza del prodotto, viene ulteriormente sottolineata dalla ricetta con ingredienti genuini […]. La gente sa che, se vuole, può riprodurre in casa le stesse bontà che acquista nei negozi e questo aumenta il grado di fiducia nella marca.»

Siamo di fronte al primo vero esempio di comunicazione verde (che oggi chiameremmo green marketing) in cui la semplicità degli ingredienti utilizzati è sinonimo di naturalezza e quindi sostenibilità. Inoltre i clienti vengono coinvolti nel provare a riprodurre la stessa ricetta a casa in un ottica di condivisione del sapere per un’operazione puramente culturale.

Alla base di queste idee ci fu la collaborazione con l’architetto Giò Ponti. Naming, identità visiva, packaging e design dei prodotti del Mulino Bianco riuscirono a creare un sistema integrato in grado di dare una risposta semplice e coinvolgente al “bisogno di verde” che in quel periodo stava maturando, attraverso un rassicurante ritorno alle “cose buone di una volta” radicato nei consumatori, successivamente, con le campagne pubblicitarie della “valle felice”. All’inizio degli anni ’90 l’amore per la natura abbandonò la fase nostalgica e diventò scelta radicale, e la famiglia perfetta del Mulino Bianco reagì al bisogno di naturalità trasferendosi in campagna, in un mulino.

La rapida evoluzione della comunicazione e del consumismo degli anni ‘90 e 2000, unita alla crescente cultura ecologista delle società civili occidentali, porta moltissime aziende, colte alla sprovvista, a improvvisare una sostenibilità mai realmente cercata. Nasce così il fenomeno del greenwashing, analizzato e teorizzato dall’agenzia americana TerraChoice che studiò la comunicazione dei prodotti di largo consumo (in U.S.A. e Canada) che dichiaravano un posizionamento “verde”. Il risultato fu una lista dei 7 peccati (tipici) del greenwashing:

  • nascondere: presentare la sostenibilità di un prodotto in base a pochi e limitati attributi senza considerare l’impatto complessivo del ciclo produttivo;
  • inventare: pubblicizzare caratteristiche ecologiche non supportate da dati accessibili e/o certificazioni;
  • approssimare: utilizzare concetti volutamente vaghi e indefiniti tali da creare confusione e trarre in inganno il consumatore;
  • falsificare: utilizzare false certificazioni per indurre i clienti a credere in una garanzia esterna all’azienda.
  • esaltare: pubblicizzare caratteristiche prive di utilità in termini di sostenibilità e/o che fanno riferimento a degli obblighi di legge;
  • minimizzare: puntare su una caratteristica positiva quando l’intero prodotto appartiene a una categoria decisamente impattante;
  • mentire: dichiarare il falso.

Il risultato dell’indagine del 2010 fu che oltre il 95% dei prodotti che si dichiaravano verdi e avevano una comunicazione verde commettevano almeno uno dei 7 peccati sopra descritti.

 

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Greenwashing in Italia: due esempi di violazione dei codici Posted on 2:15 pm - Nov 14, 2015

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